Via della Conciliazione e il marciapiede di Francesco


A Seminara l’infanzia era proibita. Un vuoto perenne di fame e rocce roventi e  muschi aridi. Talvolta volavano al vento lenzuoli bianchi macchiati di sangue a testimoniare la purezza verginale delle spose. Riti primitivi tramandati dai tempi dei normanni. Francesco non si facava domande. Francesco aveva  undici fratelli e una casa dove non esisteva un numero uguale di scarpe. Chi si alzava prima poteva vestirsi e quindi andare a caccia di cibo. Niente scarpe, niente cibo. 
A giugno le ciliegie sugli alberi si mangiavano con tutti i noccioli, a fare peso nello stomaco, con la voracità della paura di essere scoperti, presi di mira dalla lupara del contadino, giacché il bambino ladro era ladro e basta, senza sconti.
Francesco capì subito che la fame avrebbe occupato il suo futuro, ucciso i sogni, così partì.
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Roma gli aprì le braccia, come sempre fa. Lo capì subito dal messaggio che gli lanciarono Bernini e Michelangelo d’improvviso, quando camminando per Borgo Vecchio, superata Piazza Rusticci, guardando con un fremito ogni bottega di macellai e fruttivendoli, uscendo da quella dimensione stretta, fu colto da quell’abbraccio del colonnato: “vieni Francesco, sei arrivato” gli dicevano quelle colonne coccolandolo e poi subito dopo il cuppolone “quassù qualcuno ti ama” indicando il cielo come tutti gli angeli. Così fu. Francesco lavorò e mangiò, non solo ciliegie, ma pane e poi pesce, carne.
Nonostante i quattro figli non soffrissero la sua fame, Francesco avrebbe voluto qualcosa di più da lasciare di sè. 
Un giorno fu chiamato come muratore a compiere un lavoro che esaudì questo desiderio. Doveva fare il marciapiede di via della Conciliazione. Guardava i palazzi ocra e il fiume umano di mercanti, le prime automobili e le carrozze, ascoltava il vociferare dei vetturini, osservava i sandali dei frati di Santa Maria in Trasportina che ogni mattina transitavano sulla pietra serena.
La stessa pietra che ritrovò ormai vecchio assieme agli incerti passetti del suo primo nipote. “Questo marciapiede, dove passano ogni giorno persone da tutto il mondo, che vengono da Paesi che io non ho mai visto, l’ho fatto io” gli disse. “Questo rimarrà, quando non ci sarò più”. Vedeva tuttavia che il nipote non riusciva a staccare gli occhi dalla cupola, dall’immensità di San Pietro. Gli chiese allora che pensava della basilica. “E’ troppa” disse il bambino.
La meraviglia che Francesco aveva gustato come un petardo su un palcoscenico, all’improvviso, in uno spettacolo di magia, era per suo nipote una bomba di bellezza che esplodeva tutta insieme, plateale, senza confini. 
Francesco era rammaricato per le case ocra, i bottegai di piazza Rusticci, le carrozze e quello che il nipote non avrebbe potuto vedere come lui l’aveva visto quando era arrivato dalla Calabria. Nonostante ciò era contento di non essere stato li con il piccone ma con il cemento, il travertino e le pietre. Lui aveva costruito, non distrutto, e quel marciapiede sarebbe rimasto, calpestato da genti nuove, a dire che Francesco di Seminara era passato per Roma e ne aveva colto eternità.

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