La Grande Bellezza

Adoro Paolo Sorrentino, ma lui non ama Roma. La ritrae come un pittore perfezionista dalle visioni oniriche, mirabolanti, esprimendo tuttavia un giudizio quasi cattivo attraverso i personaggi-alter ego che non hanno succhiato nulla a quello sfondo sublime. Roma scorre in un documentario estetizzante, da cui le persone sono distanti, sognando di tornare alla genuinità emozionale del paesello.
Piace, soprattutto all’estero, la superficie di questa Grande Bellezza, che esiste. E’ infatti quasi scontato parlare di bella fotografia, perché lo sanno tutti che a Roma è ci sono colori inimmaginabili, riflessi sugli ocra dei palazzi replicati nel Tevere, raggi rosa tra le rovine romane, braccia luminose attraverso il Colosseo. Tutto in pieno contrasto con una sorta di volgarità neanche troppo latente. Quel contrasto che subito ci si pone davanti nel film tra il volo dell’immutabile cannonata di mezzogiorno al Gianicolo e la vecchia ai piedi dei nostri eroi del Risorgimento, tra il coro elegiaco sullo sfondo del panorama da sindrome di Stendhal inneggiante negli spazi del bellissimo “fontanone” e il passaggio su uno che si sciacqua le ascelle seguito dall’autista che dice parolacce in romanesco. E’ così via, per tutto il film che prosegue con feste da circo felliniano, maestro citato ai limiti della copia, persino con il nuovo mostro marino, e lì dove c’era il Cristo salvifico, l’attesa del miracolo, oggi ci sono le bambine pure, le suore mistiche.
Invece è proprio del popolo romano la Grande Bellezza. Dei veri semplici, non dei cinici come Jep Gambardella, non del triste Romano, personaggio interpretato da Carlo Verdone. Stranieri, intellettuali, pronti ad accusare lei, Roma, dei loro fallimenti. Che tornassero, che partissero, per capire le loro radici.
E’ proprio una prostituta da rossetto sbrodolato e la sigaretta in bocca oggi intenta a leggere di Totti, che improvvisamente coglierà la Grande Bellezza, vi troverà conforto, non tormento, perché ha qui le sue di radici e non ha altro che questa splendida città a fargli da Madre, Padre, Madonna, con il suo misticismo dirompente. E questo Sorrentino, non può saperlo, ma solo intuirlo, perché è altrove il suo Amarcord, le sue “radici”. La guarda come un osservatore attento, appoggiato su un piedistallo soggettivo, da cui lo scuote appena l’epifania dei magnifici aironi.
Sono le persone più semplici che davanti a quel fontanone, o strette nell’abbraccio del colonnato del Bernini, o scendendo Trinità dei Monti, rimarranno ammutolite per essere salvate da questa Grande Bellezza, perché non ci sarà nessun altro a soccorrerli, nessuna materia cui aggrapparsi.
E’ qualcosa di talmente potente che travalica lo sprezzo di chi ha visto tutto.
La Grande Bellezza è un film non per tutti. Non sarà forse capito nelle sue pieghe, ma non lascia indifferenti. Soprattutto coloro che hanno vissuto la Roma mondana, godereccia e mascherata. La realtà è abbagliante come la visione spirituale. Esiste davvero l’artista che sbatte la testa e parla di se stessa al plurale, la bambina che dipinge quadri da milioni di dollari, il locale dietro via Veneto che dopo anni di gloria oggi espone corpi emaciati di ragazze dell’est nelle loro lap dance. Serena Grandi interpreta se stessa come se fosse stata ripresa in una sera qualsiasi al Jackie O’, Serena che ha conosciuto la gloria da sex symbol e la sua trasfigurazione. Molti parleranno di parodia, di esagerazione, ma i pochi testimoni, fra cui sono io, attestano la foto, affatto esagerata di quello che realmente avviene.
E’ chiara l’accurata ricerca di Sorrentino, soprattutto nei dialoghi, perché prima di tutto è un grande scrittore.
Un film da rivedere: come un documentario muto già sarebbe magnifico, come libro da leggere basterebbe a se stesso come un dialogo del teatro dell’assurdo, come musica ascoltandola quasi ci invita a chiudere gli occhi. Un vortice che non lascia messaggio chiaro, piuttosto impressioni, sentimenti che fanno su e giù come una risacca. Trasuda poesia, bellezza, e verità. Di conseguenza suscita una struggente nostalgia, perché le abbiamo perse quasi del tutto nella vita fuori dall’arte. E Roma, spettatrice di questa assenza della nuova umanità, rimane travolgente e impassibile, magnifica e uguale a se stessa per coloro che sanno schiudersi al suo soffio di eternità, ritrovare la parte divina di se stessi.

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